di SIMONE IPPOLITI

Chi ha vinto non importa. La medaglia al collo degli atleti è solo una cornice, il quadro mostrato è tutt’altro. Il dipinto è chiaro: i due atleti neri Tommie Smith e John Carlos mettono fine alla loro carriera, alzando al cielo un pugno vestito da un guanto, chinano la testa, si presentano a piedi scalzi e mostrano al mondo quella spilla del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, a simboleggiare la dura lotta alla discriminazione razziale. L’inno americano rimbomba nello Stadio Olimpico, ma la gente di botto non canta più. Di colpo c’è silenzio e le urla di gioia si trasformano in grida di insulto. È il 1968, sono le Olimpiadi di Città del Messico: sono mesi di tensione soprattutto dopo gli omicidi di Martin Luther King prima e di Robert Kennedy poi.
I due atleti afroamericani sfruttano quel podio per comunicare al mondo la loro protesta. Nulla è lasciato al caso. Carlos si presenta con la divisa slacciata per testimoniare la sua vicinanza ai lavoratori sfruttati; Smith indossa una sciarpa nera al collo per denunciare le impiccagioni e i soprusi subite da tutti gli afroamericani. Per la prima volta nella storia dello sport a rimanere indelebile non è la gara, non è il risultato, ma la premiazione finale. Nella foto il terzo incomodo sembra essere Peter Norman, atleta australiano che condivide il podio con chi in quel momento sta scrivendo la storia. Eppure, se prendete una lente di ingrandimento e la puntate su quella foto, uno dei sei scatti più significativi del secolo scorso secondo la rivista Life, vi renderete conto che il dipinto non è poi più così chiaro.

Se ne è accorto Gianni Mura qualche anno fa, ne ha parlato anche Riccardo Gazzaniga in un suo articolo: Norman è il più nero tra i bianchi. Poco prima della premiazione, l’australiano si accorge che i due americani hanno un piano ben preciso e adocchia le spillette – Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti. Smith esitò e così Paul Hoffman canottiere americano attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, cede il suo stemma a quell’atleta bianco. È lo stesso Norman a proporre ai due atleti di indossare un guanto a testa, perché Carlos aveva dimenticato il suo paio al villaggio. Se ne pentiranno per tutta la vita – affermò Payton Jordan, capodelegazione Usa. Loro non se ne pentiranno mai, ma quel gesto cambiò la loro vita. I due atleti americani vennero subito allontanati dalla zona olimpica e poi abbandonarono definitivamente la carriera. Per anni faranno lavori di fortuna, convivendo con le telefonate di minaccia di un popolo che li ripugnava. La moglie di Carlos dalla disperazione si toglie la vita.

I tre si rincontreranno nel 2005 in occasione dell’inaugurazione di un monumento eretto in omaggio ai due americani. Sì, avete letto bene. Il gradino del secondo posto è vuoto: tutti si sono dimenticati di Norman? È stato lui a chiedere di non apparire in quest’opera – confessa Carlos nel corso di un’intervista tv – voleva che il suo posto sul podio fosse lasciato vuoto. Affinché chiunque salisse in seguito su quella statua potesse provare le stesse sensazioni. Mentre Smith e Carlos, nel corso degli anni, vengono “riaccolti” dalla propria Nazione entrando a far parte anche del team americano di atletica, Norman vive anni di isolamento. Seppur batta ogni record in pista e registri tempi da qualificazione, la Federazione, volutamente, non lo prende in considerazione e l’allora trentenne rimane a casa a seguire in tv le Olimpiadi di Monaco ’72. In seguito, a causa di un infortunio, rischia l’amputazione di una gamba, continua la sua attività di sindacalista e lavora in una macelleria. Alle porte di Sidney 2000 gli viene “offerta” la possibilità di denunciare Smith e Carlos per ottenere un perdono (?!) da parte della propria Federazione. Norman rifiutò. Nel 2006 il suo cuore smette di battere.

Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno – disse John Carlos – Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo. Furono proprio i due americani ad accompagnarlo, sorreggendo la bara in quel 9 ottobre, giornata mondiale dell’atletica come venne poi ribattezzata dal Comitato Olimpico. Nel 2012, a sei anni dalla sua scomparsa, il Parlamento australiano riconosce con estremo ritardo tutto ciò che di incredibile aveva fatto un suo figlio, testimoniandone il coraggio e scusandosi per averlo escluso seppur fosse il migliore atleta australiano. Basti pensare che il suo tempo di 20”06 nei 200 metri è ancora il record nazionale. Il Norman-pensiero è riassunto in un film documentario girato da suo nipote Matt e intitolato “Salute” – Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale per la quale nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo. È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance. Invece è il contrario. Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte.

 

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