di SIMONE IPPOLITI

Era il 1906 e Ferruccio era un bambino, aveva solamente 9 anni. Era di Torino, poi divenne del Toro. Scarpette ben strette e cuore granata. Mai avrebbe immaginato che un giorno sarebbe entrato nella storia. Passano 33 anni, l’Italia – quella calcistica – gongola ancora per il secondo mondiale conquistato sotto la guida maestra di Vittorio Pozzo. Nell’estate del 1939 Ferruccio Novo diventa il Presidente del Torino. Ispiratosi a Edoardo Agnelli con la Juventus, crea la società granata con un’idea diversa, più commerciale e all’avanguardia. Si contorna di fedelissimi collaboratori che scrutano per l’Italia i migliori talenti. Un grande apporto lo dà proprio il C.T. Pozzo per una campagna acquisti di livello. In pochi anni arrivano giovani interessanti come Franco Ossola dal Varese (per 55milalire), Ferraris II, Menti, Bodoira, Borel e Gabetto, gli ultimi tre dai “nemici” della Juventus. Intanto, un’Italia che fino a quel momento era stata spettatrice, entra in guerra. “Servono più sui prati che all’esercito” disse Mussolini riferendosi ai calciatori, convinto che il conflitto avrebbe assunto i tratti di una guerra lampo.

Passano gli anni e l’opera di Novo prosegue: arrivano dal Venezia Mazzola e Loik. Il primo – pur essendo un giocatore di livello – arrotonda il suo stipendio gestendo un negozio di articoli sportivi e fabbricando personalmente palloni. Il suo compagno Loik, anch’esso si cimentava nel commercio vendendo vernici. Non erano gli unici ad avere un’attività, anche Ossola e Gabetto (arrivato successivamente) avevano aperto un bar che però non andò bene. Molti tifosi infatti facevano visita, consumavano e spesso andavano via con una pacca sulla spalla senza saldare il conto…!

I successi sul campo non si fanno attendere e il Torino diventa la prima squadra italiana a centrare il “double” – scudetto e Coppa Italia – nella stagione 1942/43. La seconda guerra mondiale però esplode definitivamente e le società di calcio, per evitare la chiamata alle armi dei propri giocatori, stringono accordi con le aziende. Il Toro di Novo creò la Torino FIAT: i giocatori si mischiavano con gli operai e considerati elemento essenziale per la produzione potevano restare in Italia ed evitare l’arruolamento. Il campionato italiano di calcio 1944/1945 viene sospeso e sostituito dal Campionato di guerra dell’Alta Italia, vinto dai Vigili del fuoco di La Spezia (la FIGC nel 2002 ha riconosciuto soltanto valore onorifico e non ufficiale).

La guerra è finita, si torna alla libertà. e nel calcio anche gli stadi tornano a riempirsi. La società granata continua nella sua crescita e lo spogliatoio apre le porte ad altri ragazzi promettenti come Bacigalupo, Ballarin, Grezar, Maroso, Rigamonti, Castigliano e Ferraris. Nasce il Grande Torino. I tifosi impazziscono e arrivano altri 4 scudetti consecutivi. Ben 10/11 della Nazionale italiana è composta da giocatori del Torino. Per molti, dal punto di vista sociale, quella squadra diviene simbolo di una rivincita, di una nuova vita del Paese dopo un’umiliante sconfitta in guerra. Lo sport, insieme al cinema neorealista, erano due vie di fuga per togliersi dalla miseria, non pensare alla morte: la gente voleva tornare a vivere.

Gli italiani riprendono in mano la loro quotidianità, le attività tornano a respirare: tutti si rimboccano le maniche come, nel vero senso della parola, faceva Valentino Mazzola sul campo da gioco. Era un gesto famoso del capitano del Toro che così facendo dava via al cosiddetto quarto d’ora granata. Dalle tribune del Filadeflia si sentiva l’ormai noto squillo di tromba di Oreste Bolmida e la folla esplodeva. Era il doppio segnale che infuocava gli scarpini granata e dava via a goleade a non finire. Come quella allo Stadio Nazionale contro la Roma che fissò il risultato sullo 0 – 7.

È il 3 maggio del 1949 e all’Estadio Nacional di Lisbona si gioca Benfica-Torino. Qualche calciatore granata è rimasto a casa come Tomà infortunato, il giovane della Primavera Giuliano e Gandolfi (al suo posto partì il terzo Ballarin, su richiesta del fratello maggiore) e infine anche il Presidente Novo. È un amichevole, nessun punto in palio, nessuna coppa da alzare. Il match è un omaggio a Francisco Ferreira, calciatore lusitano prossimo al ritiro. Lui stesso aveva parlato qualche settimana prima con Valentino Mazzola che si era impegnato ad organizzare l’incontro. Il Torino perde 4 a 3, ma poco importa. La testa è già all’Italia dove i granata devono ancora disputare 4 partite per conquistare l’ennesimo scudetto.

L’orologio si ferma alle 17:03 del 4 maggio 1949: il Grande Torino non c’è più. L’aereo su cui viaggiavano i giocatori, lo staff, i giornalisti e i tecnici si schianta contro la Basilica della collina di Superga. È tutto finito. Sono 31 le vittime di quello che rimane una delle più grandi tragedie a livello sportivo che il nostro paese si porta dietro negli anni. L’Italia intera piange quello che da quel 4 maggio del 1949 assunse i tratti del mito. Purtroppo è tutto vero. La radio diffonde la notizia, all’indomani i giornali scrivono con lacrime d’inchiostro.         È in una frase di Indro Montanelli che si riassume tutto ciò che è stato e tutto ciò che rimane di quei fantastici ragazzi: Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta.

Condividi!

Condividi quest'articolo dove vuoi.