di DAVIDE TECCE – “Se sono una persona riuscita nella vita, io ci sono riuscito grazie a un personaggio che non ci è riuscito assolutamente”. In questa battuta proferita pochi mesi prima della sua scomparsa, avvenuta lo scorso 3 luglio all’età di 84 anni, è racchiuso tutto il senso del singolare percorso artistico ed esistenziale di Paolo Villaggio, formidabile istrione genovese, spirito eclettico ed iconoclasta che ha saputo mettere a nudo, con impietosa verve satirica, le contraddizioni dell’Italia di ieri e di oggi. Protagonista di una carriera lunga oltre mezzo secolo, iniziata negli anni cinquanta vestendo i panni del cabarettista e dell’attore teatrale, proseguita nei sessanta con il debutto in radio e nei varietà televisivi, decollata pienamente negli anni settanta grazie allo sbarco sullo schermo cinematografico, ed approdata infine negli anni novanta alle onorificenze della critica, Paolo Villaggio si è contraddistinto per un tipo di espressività irriverente e grottesca, basata sulla dilatazione della mimica corporea e sulla deformazione grammaticale del linguaggio, divenuti presto il carattere essenziale della sua immagine di uomo di spettacolo. L’abilità con cui il popolare attore genovese ha impersonato una serie di figure penetrate a fondo nell’immaginario collettivo, quali il bisbetico e maldestro Professor Otto von Kranz, il vile e sottomesso impiegato

Giandomenico Fracchia e soprattutto il celeberrimo ragionier Ugo Fantozzi, emblema vivente della mediocrità, è stata tale da cucirgli addosso gli abiti dei suoi stessi personaggi. Questo bizzarro processo simbiotico, se per un verso ha regalato al noto comico un successo di straordinarie dimensioni, per altro verso ha finito tuttavia col mettere in ombra le rimanenti sfaccettature della sua attività artistica e della sua stessa personalità, fatta non solo di sardonico umorismo, ma anche di fitte considerazioni intellettuali e politiche. Ad ogni modo, l’ambigua sovrapposizione tra la persona di Paolo Villaggio e la maschera da egli indossata – in primis quella fantozziana – ha avuto il merito di consegnare una duplice eredità: in primo luogo, la riscoperta del senso originario del binomio maschera-persona (nel teatro antico, il termine “persona” indicava la maschera di scena dell’attore, i cui tratti somatici, appositamente enfatizzati e distorti, agevolavano la caratterizzazione del soggetto interpretato); in secondo luogo, l’invenzione di una comicità che sopravvive al suo creatore e proietta la sua profonda azione corrosiva sin nello scenario attuale. Uno scenario in cui non sono più gli italiani a ridere di Fantozzi, bensì Fantozzi a ridere degli italiani, dall’alto di quella sua stabilità economica, sociale e familiare che, seppur mediocre, costituisce oggi non tanto motivo di scherno, quanto piuttosto oggetto di rimpianto.

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