di LUCA PACCUSSE

La Corea del Nord è tornata prepotentemente in cima all’agenda della politica estera degli Stati Uniti di Donald Trump, tra esercitazioni militari, minacce nucleari e follie del giovane dittatore Kim Jong-un, ultimo esponente di quella che è una vera e propria dinastia familiare. Il culto della personalità dei leader nordcoreani ha permeato per oltre mezzo secolo le vite dei suoi cittadini, privati di ogni libertà fondamentale e perlopiù inconsapevoli di ciò che accade nel resto del mondo. Se infatti la Corea del Nord ci sembra inaccessibile – e i pochi che l’hanno visitata lo hanno fatto sotto strettissima sorveglianza – è anche vero che ai nordcoreani il mondo esterno è totalmente precluso e ignoto. Un paese al buio, non solo metaforicamente dato che in molte città,  durante la notte, le uniche strutture illuminate sono quelle con i ritratti della dinastia dei Kim. I sudditi di Kim Jong-un vivono in un microcosmo in cui informarsi di ciò che accade al di fuori è pressoché impossibile.

Si può utilizzare il telefono ma scordatevi internet, o meglio quello che noi conosciamo. Il loro si chiama Kwangmyong, ed è una rete isolata, non connessa alla internet mondiale. Permette di mandare email, visitare i siti di regime, leggere le news (anche quelle controllate) e accedere a una biblioteca elettronica. Film da fuori sono vietatissimi, anche se capita che qualcosa segretamente arrivi – la madre di un mio amico è stata uccisa per aver visto un film di Hollywood – ha affermato Yeonmi Park, giovane attivista che è riuscita a fuggire dal suo paese nel 2007. Preclusioni anche nel vestiario – I jeans sono associati al gusto occidentale: indossarli equivale a un tradimento –  racconta il corrispondente della Associated Press Eric Talmadge.

A colmare le nostre scarse conoscenze sulla vita quotidiana a Pyongyang e dintorni possono venire in aiuto alcune testimonianze reali o romanzate: ad esempio, “L’Accusa”, un libro scritto nell’arco di oltre vent’anni e pubblicato in Corea del Sud nel 2014. Il volume, edito anche in Italia alcune settimane fa da Rizzoli, raccoglie sette brevi racconti di un autore nordcoreano che si fa chiamare Bandi. Si narrano storie di lavoro, fatiche, umiliazioni, paura all’ombra di un regime oppressivo e iper-burocratizzato. Il manoscritto avrebbe passato il confine attraverso una organizzazione sudcoreana che aiuta i dissidenti e lavora per la riunificazione delle due Coree. Chi si cela dietro lo pseudonimo? Secondo Hee-yoon Do, presidente di questa organizzazione, Bandi è nato nel 1950, vive tutt’ora in Nord Corea ed è uno scrittore rispettato che fa parte dell’organizzazione letteraria ufficiale del regime, collaborando con le più importanti riviste nordcoreane. Col tempo è diventato sempre più scettico verso il governo e si è idealmente allontanato dal suo lavoro di propaganda. I racconti di Bandi sono di fiction, quindi vanno presi con le dovute licenze poetiche, ma danno certamente un’idea del clima che si respira da quelle parti. Sono ambientati nella Corea del Nord dei primi anni Novanta del XX secolo, tra l’ultimo scorcio di vita del Grande Leader Kim Il-sung, fondatore della Repubblica Democratica Popolare di Corea e i primi anni al potere di Kim Jong-il (padre dell’attuale leader Kim Jongun) che ha governato dal 1994 al 2011.

Proprio la morte del “Presidente eterno” è al centro di uno degli episodi del libro, in cui si racconta come una donna viene programmata per piangere la morte di Kim Il-sung, mentre suo marito sta morendo in un campo di concentramento. Sì, perché il regime dei Kim pullula di questi luoghi in cui si troverebbero attualmente 150200mila persone (su una popolazione di 25 milioni di abitanti). Secondo il rapporto della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite sono stati rinchiusi tra i 600mila e i 2 milioni e mezzo di nordcoreani, in mezzo secolo. In 400mila sarebbero morti per le torture, la malnutrizione e le esecuzioni sommarie. Alcuni riescono a fuggire, come Shin Dong-hyuk, l’unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord. Il trentenne protagonista del libro biografico “Fuga dal Campo
14”, del giornalista statunitense Blaine Harden, è nato dall’unione di due detenuti del campo di Kaechon, trovandosi in prigionia senza avere nessuna colpa. Infatti, in Corea del Nord – unico Paese al mondo – esiste una legge che prevede la “Punizione per tre generazioni”, istituita nel 1972. Probabilmente tutta la famiglia di Shin finì al Campo 14 per “colpa” di due zii fuggiti a Seul ai tempi della Guerra di Corea.

Dal reportage a fumetti “Pyong- yang” di Guy Delisle a quello fotografico di Xiaolu Chu realizzato col telefono per non farsi segnalare alla polizia dalla gente del posto; dalle immagini girate di nascosto da cittadini nordcoreani apparse nel documentario “Secret State of North Korea” al reportage di Shane Smith, il giornalista di Vice intrufolatosi nel paese di nascosto, emerge un paese di privazioni economiche e democratiche. Un paese chiuso e misterioso, isolato internazionalmente, che prima o poi si aprirà al mondo, è inevitabile. Resta da capire se lo farà in maniera turbolenta o meno.

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