di GABRIELLA TORRE/FARA SABINA – Da sempre scorcio evocativo del paesaggio sabino, l’Abbazia di Farfa con il suo borgo, attira ogni anno turisti da tutto il mondo. E basta visitarla per comprendere come questo piccolo frammento di medioevo sia fonte di tanto interesse: pochi passi e sembra di varcare una porta del tempo e ritrovarsi in un’epoca lontana fatta di cavalieri, re e monaci silenziosi. In realtà di silenzioso, nella Farfa medievale, c’era ben poco visto che nel momento più alto della sua potenza, Farfa era uno dei centri più conosciuti e prestigiosi d’Europa e controllava chiese, conventi, castelli e città fortificate. Lo stesso borgo era popolato dal rumoroso viavai di mercanti che vendevano oggetti, tessuti e spezie giunte anche attraverso una nave commerciale che poteva fermarsi in tutti i porti imperiali senza pagare alcun dazio. Tutto grazie all’imperatore.

Sì, perché l’essere Abbazia imperiale ha giocato un ruolo fondamentale nella sua crescita. Si diceva che l’abate facesse ombra alla potenza del Papa – svela a Qui News la storica dell’arte Elena Onori – ma in realtà il suo potere era quello di un vero e proprio legatario imperiale incaricato della difesa del Lazio e della rappresentanza degli interessi imperiali presso la Santa Sede. Basti pensare che l’abate Sicardo era parente di Carlo Magno e lo stesso imperatore si fermò a lungo in occasione dell’incoronazione in San Pietro il 25 dicembre 800. Ma Farfa non era solo commercio. La sua ricchezza le permise l’inserimento di una seconda abside nella chiesa principale ma soprattutto l’ampiamento massimo del monastero. Nel silenzioso lavorio degli scriptoria, il sapere veniva preservato attraverso la paziente dedizione dei monaci benedettini. Tra loro Gregorio da Catino, rimane forse la figura più significativa. Con un’opera minuziosa Gregorio – continua la Dott. ssa Onori – trascrisse oltre tremila documenti riguardanti la storia dell’abbazia ma anche dell’Europa occidentale. Il suo sforzo mirò a ricondurre la storia monastica in un ambito maggiormente corretto da un punto di vista metodologico.

Ma la grandezza di Farfa non sarebbe durata in eterno. La lunga ombra dei Saraceni arriva fino a Farfa e i monaci sono costretti ad abbandonarla a causa di un incendio. Secondo l’abate Ugo I sarebbero stati dei ladruncoli che nottetempo avrebbero involontariamente provocato le fiamme. Un’ipotesi che non è molto convincente – secondo la Dott.ssa Onori – poiché nelle fonti farfensi, le bande saracene sono costantemente indicate come responsabili dirette dell’incendio dell’abbazia. Dopo l’aprile dell’898, anno dell’incendio, i monaci ritornarono via via a Farfa e i lavori di ricostruzione del tetto della chiesa abbaziale incendiata non tardarono molto, grazie alle travi concesse da papa Anastasio III (911913) e prelevate, una ogni cinque, da quelle che venivano trasportate dagli Appennini a Roma via Tevere per il completamento del tetto di S. Giovanni in Laterano.

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