di ELEONORA FESTUCCIA / FARA SABINA – Anno 1965: scegliere una scuola poteva essere un affare di famiglia, soprattutto nei piccoli centri capitava che i genitori decidessero per i loro figli. Trovarsi in classe insieme era un caso, difficilmente una scelta. Più una questione di destino. Così, quel mese di settembre di oltre cinquant’anni fa, cinque ragazzi sabini si ritrovarono tutti nella stessa classe dell’Istituto tecnico per geometri Luigi Einaudi, in via Pianciani (zona Manzoni), a Roma. Enzo Festuccia di Passo Corese, Domenico Rinaldi di Canneto, Gianni Sileri di Casperia, Marcello Giulivi di Poggio Mirteto e Raffaello Giardinieri di Montelibretti. Nella classe dei pendolari della mitica sezione “A” c’era anche un capellone occhialuto con una chitarra sempre in spalla. Era Claudio, e di cognome faceva Baglioni. Avete presente?!

Anno scolastico 1968/69 – “IV A” Istituto Tecnico Geometri Einaudi

Forse irriconoscibile, ma già con le idee molto chiare: “Mi ricordo bene – racconta Enzo – che il primo giorno di scuola, arrivò l’insegnante di lettere e nonostante Claudio fosse alto, fu spostato al primo banco vicino a me. <<Tu, laggiù, con gli occhiali, mettiti qua…>> – gli disse. Gli chiesi subito come mai avesse scelto quella scuola e lui rispose in modo fermo: <<Mah, così, per prendere un diploma… tanto da grande non farò il geometra, ma il cantante>>. Enzo incuriosito, non poteva immaginare che da lì a pochi anni, il suo compagno di banco avrebbe fatto la storia della musica italiana.
Una prima fila sui generis che durò per quasi tutti gli anni della scuola. Una strana coppia: Enzo piccolino, Claudio alto e con le spalle larghe. “Io – confessa Domenico Rinaldi a Qui News – dal secondo banco non vedevo nulla, ancor meno per via di quei suoi capelli folti che all’epoca erano di moda e che ci facevano sembrare tutti con la permanente”. Se Enzo ricorda le confessioni di Claudio, al contrario Domenico ammette di essere stato spiazzato da tutto quel successo. “Pensavo più che si affermasse come architetto, non immaginavo sfondasse nel mondo della musica”.
Ma a prescindere da tutto, al netto delle glorie, delle canzoni storiche, delle luci da palcoscenico e del Sanremo appena trascorso; levando tutto ciò (che comunque è “tanta roba”), cosa rimane? Rimane qualcosa che se possibile è ancora più prezioso. Un passato fermo lì, cristallizzato come in una foto in bianco e nero. Le partitelle a pallone in Piazza Santa Croce in Gerusalemme, durante le esercitazioni di topografia, quando Claudio già strimpellava ‘Signora Lia’, con la speranza che a cantarla fosse Rita Pavone, come gli avevano fatto credere. Le partite a calcio balilla, con gli spicci dati dai genitori per comprare quelle pizze mai addentate, perché “tanto c’era Claudio che portava i panini all’olio per tutti”.

I compagni di classe sabini – Da sinistra: Marcello, Enzo, Claudio, Domenico e Gianni

Un giorno di festa qui in Sabina, lungo la strada degli inglesi; quell’estate in cui – si vocifera – Claudio abbozzò note e parole di ‘Questo Piccolo Grande Amore’. “Un tipo riservato, il primo della classe” – così lo ricorda Gianni Sileri, che con lui si era iscritto anche alla facoltà di architettura a Valle Giulia. Semplicemente Claudio. Così lo vedono ancora oggi gli amici sabini che lo hanno visto crescere, come uomo e come artista.
“Abbiamo vissuto la sua metamorfosi – racconta Marcello Giulivi – prima con quel fascio di capelli ricci e quegli occhialoni spessi e poi un giorno, di punto in bianco, si presentò a scuola irriconoscibile: capelli lisci, lunghi, altro tipo di occhiali. Si stava preparando per il suo ingresso nel mondo dello spettacolo. Era il 1968, mentre gli scioperi impazzavano usciva ‘Signora Lia’ e la voce non era della Pavone, ma la sua. Se l’immagine cambiò, il vero Claudio pare essere rimasto lo stesso. Per gli amici sabini c’è sempre stato uno spazio speciale.
Dopo anni di buio i vecchi compagni di classe si sono riuniti nel 1997, proprio su input del cantante e da allora si sono rivisti diverse volte. “Quando è venuto a Rieti per il concerto – racconta Enzo – ha chiamato tutti noi di zona anche per assistere alle prove. Una volta terminate, ci siamo fermati sul palcoscenico tutti insieme. Un tavolino, quattro sedie, un fiasco di vino, un pezzo di formaggio e due chiacchiere”.
In quell’attimo i ragazzi sabini del ’51 sono tornati in piazzetta, come se di lì a poco ci fossero le esercitazioni di topografia. Il tempo si è fermato. Non sono cantanti, non sono impiegati, non sono dirigenti o padri di famiglia. Saranno tutto ciò una vita più in là. Ora sono semplicemente amici.

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